Per cominciare, ci racconti come e quando è iniziato il tuo percorso artistico?
Ultimamente, nell’ultimo paio d’anni intendo, mi sento rivolgere spesso questa domanda. Non so… non mi sembra poi così interessante dove e quando sia iniziato il mio percorso. Molto più coinvolgente è il suo svolgimento. In ogni caso, per rispondere alla domanda ho frequentemente citato la storiella del mio primo studio, delle prime notti passate a dipingere, ancora adolescente, e della vasca dei pesci che stava fuori dalla porta: il mio pensatoio notturno. Siccome ripetermi mi annoia a morte cercherò una traccia ancora più lontana. Mi accingo a dissanguarmi di memoria. Frequentavo il Liceo Artistico, mi rigiravo tra le mani, da giorni, il mio nuovo acquisto, il quarto volume dell’ARGAN. Sarebbe stato il libro di testo per l’anno successivo e scalpitavo al desiderio di affrontare quelle lezioni. Sapevo che ci sarebbero stati capitoli che non avremmo affrontato, erano fuori dal programma di studi. Cominciai perciò a leggere per conto mio quelle pagine. Rimasi incagliato tra pagina 716 e 720. Erano opere di Mark Rothko e di Jackson Pollock. Fu come vedere scintillare la luce oltre L’Orizzonte degli Eventi, come vedersi nudo per la prima volta in vita. Come quando a 11 anni ti guardi allo specchio e vedi per la prima volta la tua nudità, quella che negli anni precedenti era stata una condizione senza importanza, un fatto familiare del tutto ordinario. L’infanzia si era dissolta in un attimo. Lì, forse, ha attecchito il primo seme di una vicenda che mi avrebbe accompagnato per quasi tutta la vita.
In che modo e da che cosa trovi ispirazione per realizzare le tue opere?
Da un articolo su un giornale, da una conversazione. Dal telegiornale. Da un tizio incrociato per strada che mi chiede se ho una cartina. Dal racconto di un amico sulle sue pene esistenziali. Da una nuova scoperta scientifica. Da una passeggiata tra le sale del Museum der bildenden Künste a Lipsia. Da una passeggiata sulla calotta di ghiaccio del Golfo di Botnia, spazzata dal vento e dalla neve. Da una giornata passata sfogliando vecchie foto di famiglia. Entro in studio, accendo il computer e lascio che il mondo entri dentro la stanza. Lascio che le opere, quelle che ancora non esistono, emergano dalla foschia.
Quali sono i generi e i modi espressivi che prediligi?
Verrebbe naturale rispondere “la fotografia”, ma non è così. Quello su cui ho lavorato fino ad oggi è solo la parte emersa di un iceberg. Per senso di disciplina mi impongo di continuare l’indagine su questo mezzo fino alle sue estreme conseguenze. Quello che non è stato ancora mostrato, ciò che si muove sul fondo e che sto sperimentando e imparando in privato, porta a nuove e più vaste implicazioni. Il problema non è la fotografia piuttosto che un altro linguaggio. Quello che mi interessa si trova nel liquido amniotico delle macchine per la documentazione, di qualsiasi tipo esse siano, e dei segni che questi nuovi occhi stanno lasciando sull’immaginario comune o privato di ognuno.
Qual è il messaggio che vuoi trasmettere al pubblico tramite le tue opere?
Non credo di cercare messaggi particolari o definitivi. Piuttosto, ho l’ambizione di costruire macchine della visione, esperienze “Estetiche” in senso propriamente filosofico. Ovvero, esperienze che conducano a una qualche forma di conoscenza attraverso i segni, facendo riferimento in maniera diretta alla radice greca della parola àisthesis e del verbo relativo aisthànomai (αἰσθάνομαι), muovendomi, quindi, nel territorio della pura “sensazione”. Per mezzo di queste “esperienze” voglio indurre il pubblico al sacro vincolo della “contemplazione”.
Come ti poni nei confronti dell’arte del passato e ci sono artisti che hanno ispirato la tua produzione artistica?
Come uno che viene dopo. Con le gambe ben piantate dentro l’oceano di immagini che mi hanno preceduto, ma con gli occhi nuovi di zecca per guardare attentamente ciò che ho di fronte, adesso.
I nomi dei singoli artisti non mi interessano. Mi interessano più i loro “deliri”, gli “errori”, gli obiettivi raggiunti o le conseguenze che incrocio nelle loro opere, o che le loro opere hanno interiorizzato e portano inglobati nel loro DNA. Mi interessano le utopie o le distopìe che pervadono i loro sforzi. Le frecce che scagliano nel territorio del “mai visto”. Mi interessa il filo di Arianna di tematiche o di ossessioni che si dipana nelle epoche, con salti temporali a volte vertiginosi, e che lega il lavoro di artisti differenti tra loro. Cerco le tracce del senso del sublime tra molti autori che hanno toccato questo universo e inseguo le ricerche di altri sul concetto di “tempo”, fisico o immateriale che sia. Mi chiedo: cosa succede quando un oggetto, in quanto “cosa reale” viene trascinato nel campo della sua rappresentazione?… E cerco forme alternative di descrizione dell’umano.
Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea del nostro Paese e in che modo ritieni che un artista possa emergere?
Non ho la più pallida idea di come un artista possa emergere. Le prime reazioni che si pongono alla mia attenzione di fronte alla vostra domanda sono una serie di altre domande: che tipo di notorietà? A che livello e in che ambito questo ipotetico artista si vuole muovere e che traguardi ha in mente? Esistono diverse tipologie di successo, o di insuccesso, che si agitano sul proscenio dell’arte. Mi viene in mente una notorietà di Warholiana memoria, quella che dura un quarto d’ora, che mi sembra stia andando per la maggiore nel sottobosco del sistema italiano; forse non proprio un quarto d’ora, ma un paio di stagioni sì. Poi la notorietà del decennio, che è sottoposta ai sali-scendi dei gusti che muoiono o che tornano alla ribalta con la trasformazione delle mode culturali. Ho conosciuto artisti, negli anni novanta, che avevano un lavoro di alto profilo e che venivano considerati delle solide realtà dell’arte italiana, gente che magari si è fatta la Biennale di Venezia un paio di volte. Oggi, se mi capita di fare i loro nomi ad un giovane artista spesso ottengo un sorriso ironico o uno sguardo vuoto, come se stessi raccontando storie di fantasmi. Esiste anche la notorietà dei ripescaggi storici, di gente che ha avuto una carriera frustrante e tutta in salita nel corso della vita e poi, due giorni dopo la loro morte, ecco, tutti a dire che quello che ha fatto Tizio ha precorso i tempi, che Caio è stato testimone importante di un’epoca, che loro c’erano e lo hanno notato e sostenuto per primi….. Non lo so. Mi sembra tutto così confuso. A conti fatti, credo che rimanere in stretto contatto con la propria “ossessione” e ascoltarla attentamente sia un buon punto di partenza. E poi, per i giovani artisti esistono sempre quei workshop in cui insegnano come farsi notare e come relazionarsi con il sistema, no?! Io so solo che, a cicli, si finisce tutti per correre a Venezia o a Firenze per vedere l’ultima grande mostra di Damien Hirst e di Bill Viola, o perché no, all’Hamburger Bahnhof per guardarsi, in silenzio, i lavori di Kiefer. In fondo sognare non costa niente, finché il sogno non diventa realtà…
A cosa stai lavorando ora e quali sono i tuoi progetti futuri?
In questi mesi, oltre alla quotidiana progettazione e produzione dei nuovi lavori delle serie in corso, sto lavorando a progetti che introducono un salto linguistico rispetto a ciò che ho fatto finora. Si tratta di sculture, installazioni e video-installazioni con un’impronta concettuale più marcata. Sono progetti che hanno fatto la spola tra un cassetto e l’altro negli anni, finché l’evoluzione e le novità introdotte dalle mie pseudo-fotografie non hanno reso attuali e pertinenti proprio questo tipo di intuizioni. Tra l’autunno e la fine dell’anno saranno inaugurate 2 mostre di un certo respiro, e avranno tempi quasi coincidenti: la prima, che si terrà nelle due sedi dei Musei Civici di Alessandria, Palazzo Cuttica e le Sale d’Arte, avrà la collaborazione di Arteam ed è la conseguenza del premio speciale vinto proprio all’Arteam Cup nel 2015. La seconda, invece, si terrà alla Sinagoga di Reggio Emilia. Il main-project delle due mostre è una grande video-installazione dal titolo Millennial Tears, che da un lato prosegue e intensifica la mia “ossessione” per il paesaggio glaciale e artico, mentre dall’altro si pone come omaggio alla cultura ebraica e alle comunità ebraiche in generale. Da qui la scelta della Sinagoga come seconda sede espositiva. La mostra di Alessandria vedrà la curatela di Matteo Galbiati ed inaugurerà il 25 novembre prossimo, mentre una settimana dopo, il 2 Dicembre, prenderà il via quella di Reggio Emilia e sarà curata da Chiara Serri.